Spesso rivolgiamo la nostra attenzione sulla nostra squadra in modo forse eccessivamente focalizzato, portando riferimenti e riscontri quasi esclusivamente basati sul raffronto tra i nostri giocatori e su quanto essi possano esprimere nel gruppo.
Poi, studiando le variabili calcistiche o apprezzando lo spettacolo sportivo di una partita di riferimento nel settore, come può esserlo una sfida di Serie A, di Champions o, ancora, della Premier League (solo per citare alcune fra esse), ci si può “imbattere” su un aspetto che a volte appare dissonante, quasi in contrasto con quanto la società occidentale spesso (soprattutto sino al recente passato) ci porta come valori fondanti il mondo del lavoro, e non solo: ricerca di equilibrio e ponderazione tra competenze professionali e remunerazione economica. Seppur sempre con meno enfasi, stipendi, cartellini, contratti milionari sembrano storcere un po’ il naso alla quotidianità di tutti noi e a quanto possiamo poi trasmettere alle generazioni future, compresi i nostri atleti, più o meno “piccoli” o “maturi” che siano, come costruzione di una propria immagine e considerazione del proprio essere correlate a ciò che svolgiamo con impegno e dedizione nella vita e a quanto esso si inserisca in una rete di relazioni con gli altri: persone care, colleghi, amici, conoscenti e “società” in senso sempre più esteso.
In un quadro decisamente variegato e per molti aspetti complesso, come può esserlo il mondo del calcio, con i suoi sponsor, le sue pubblicità (non ultima la trasferta americana della Nazionale Italiana; trasferta nel corso della quale si potevano notare brand del luogo scorrere sui cartelloni alle spalle dei giocatori durante le riprese “da vicino” e noti loghi di imprese esclusivamente italiane sui medesimi cartelloni nelle inquadrature immediatamente successive a “campo largo”), i suoi ingaggi, le sue variegate competizioni, le multinazionali che ne gestiscono i profitti (e la lista potrebbe proseguire con molte altre voci); risulta allora forse interessante e utile identificarne una su tutte e tradurla in domanda, probabilmente anche banale: “Perché solo alcuni giocatori percepiscono stipendi così alti?”; o, considerandola da una prospettiva speculare: “Perché un Club è disposto a investire così tanti milioni di euro per il cartellino e l’ingaggio di un singolo atleta (campione affermato o talento in divenire che egli sia)?”.
Entrambi i quesiti potrebbero convergere verso un’unica considerazione: all’interno di un “contenitore” sportivo che richiede ogni istante in più che la prestazione si strutturi su parametri fisico/atletici di alto livello, uno fra gli elementi principi di valutazione, “selezione” e riuscita in tale contesto risulta essere, allora, proprio la “resa” in tale direzione. Seppur termini, se considerati come parametri prestazionali, inevitabilmente asettici, o quantomeno poco spendibili con gli aspetti più emotivi ed esperienziali di un giocatore, di certo non costituito esclusivamente da tempi, velocità
raggiunte, carichi di lavoro, esplosività muscolare o, sempre a titolo esemplificativo, resistenza aerobica; essi rappresentano “vincoli” non trascurabili nella possibilità di divenire competitivo per un professionista.
E se i Club più prestigiosi assumono (e non solo rappresentano) un ruolo di guida nella crescita positiva dello sport che vivono ad altissimi livelli; e se Settore Giovanile significa anche percorso formativo verso o a disposizione di (dipende da dove, a torto o a ragione, si pone l’accento) una Prima Squadra; e, nuovamente, se il Dilettantismo si propone, tra i suoi obiettivi (educativi e progettuali e, perché no, d’immagine e economici), di collaborare in modo sempre più significativo con il Professionismo; allora non possiamo davvero esimerci dal riflettere attivamente sulla dinamica qualche riga sopra introdotta. Non è più sufficiente saper “toccar palla”. Non basta “essere portati”. Davvero poco efficace avere esclusivamente il “talento”. Competizione, spazi sempre più saturi, richieste stressanti che allargano la loro origine a luoghi un
tempo forse meno in concorrenza con la quotidianità del giocatore (atleti con grande motivazione alla riuscita sportiva provenienti da ogni parte del globo), si intrecciano con agiatezza sempre meno stimolante, disponibilità alla fatica costantemente più fragile e contesti con tratti iper-protettivi che spesso caratterizzano il qui e l’ora del vissuto degli atleti (la competenza altrui, ad esempio, può comportare, per sua natura, la critica costruttiva delle proprie opinioni; e ciò, attualmente, non trova
grande respiro nella relazione con l’altro: l’individualismo sembra spadroneggiare sull’individuo). Entrambi gli “schieramenti”, di fatto, complicano allenamenti e partite, sul versante più “pratico” del tema, e soggettività e aspirazioni, sul piano più “astratto” del nostro considerare. Se il mio compagno di squadra, come me, tenta di primeggiare per un posto da titolare; se un mio avversario cerca attivamente di vincere un contrasto, di superarmi con un dribbling, di conquistare una vittoria sul campo; se in un Torneo come in un Campionato, un Team vuole risultare vincente per aumentare la probabilità che un singolo “brilli” tra i più: la corsa diviene un fulcro imprescindibile.
Ecco allora che, in un percorso forse più lineare, magari nato nei campetti condivisi con gli amici e poi coronato negli stadi più gloriosi, il “correre” con maggiore costanza e con una intensità che sia agonistica, oltre che efficace, diviene: sia il “minimo garantito” da cui partire; sia una finalità da raggiungere e mantenere “il prima possibile” (e questo malgrado la convinzione colui, come chi vi scrive, che considera il calcio degno erede di talenti intramontabili – vedi Baggio, Maldini, Nesta, Cannavaro, Del Piero, Rivera, Riva, Baresi, Totti, Buffon, dimenticandone troppi; vedi Eusebio,
Cruijff, Ronaldinho, Van Basten, Beckenbauer, Matthaus, Platini, Yashin, Ronaldo il Fenomeno, Zidane, dimenticandone ancora troppi; vedi Pelè, Maradona, Messi, ricordando tutto “l’Olimpo”! – che hanno reso il tocco di palla un’arte).
“…Corri, Forrest, corri!…” (Forrest Gump, 1994) Citazione magari un po’ autoironica per quanto sinora sostenuto, ma innegabilmente “calzante” nel senso.
“Perché un Club è disposto a investire così tanti milioni di euro per il cartellino e l’ingaggio di un singolo atleta (campione affermato o talento in divenire che egli sia)?”. Potremmo quindi risponderci, affermandolo con una certa dose di buon senso, che molto dipende dal fatto che: davvero moltissimi sono disposti a correre; non molti possono unire, per storia personale così come per caratteristiche individuali, abilità e capacità tecniche che possano sostenere standard sportivi di alto livello; e davvero pochissimi tra essi siano poi dotati anche di grande talento. Ma, provando a cogliere il cuore della nostra risposta e a motivare adeguatamente quanto innegabilmente accade, ovvero che numerosi sono gli atleti di quantità che “affollano” serie prestigiose e che altrettanti sono gli atleti che hanno concorso, per qualità, agli stessi campi di gioco, ma che, senza mezzi termini, non hanno raggiunto tale obiettivo, possiamo azzardare: moltissimi, tra i nostri ragazzi così come tra i professionisti, probabilmente potrebbero e possono attingere ad abilità e capacità tecniche significative e degne di nota positiva in ambito calcistico; molti di loro possiedono anche un reale talento nel calcio; ma davvero pochissimi tra questi ultimi sono pronti, e forse disposti,
ad allenare il talento attraverso la fatica.
Quando i nostri figli ci portano uno “sfogo” dal campo, quanto disponibilità noi genitori mettiamo nell’accogliere la frustrazione in qualità e con il ruolo di sostegno, lasciando il fluire dei concetti e condividendo l’immediatezza delle emozioni? Quanto rappresentiamo e trasmettiamo del complicato ma maturativo processo della gestione della frustrazione (fondante nel percorso di definizione del Sé, dei propri limiti, dei propri valori)? E quanto invece, in modo naturale, importante, ma forse troppo affrettato, portiamo una soluzione che si sostituisce a loro, ai nostri figli? Quanto interveniamo trasportati anche dal nostro vissuto del momento, convinti che (a volte “magicamente”) si possa subito risolvere il torto subito, anche quando abbiamo forse definito un po’ precipitosamente che quanto accaduto a nostro figlio sia effettivamente un torto? Quanto ci soffermiamo su queste domande dopo aver agito o, nella migliore delle ipotesi, prima di agire? Concludo con un ultimo quesito, nuovamente aperto a tutti noi, e nuovamente con la speranza esso possa muovere a ulteriori considerazioni sul tema e non limitare la riflessione alle pagine di un breve
articolo.
Tornando ai sogni, al divertimento del gioco e alle passioni dei nostri giovani atleti, consapevoli di come il concetto di “corsa” comporti, di per sé, impegno nel confrontarsi con stimoli, input e finalità virtuosi, seppur impegnativi sin nel profondo nelle loro interpretazione e nel loro conseguimento; noi, come agenzia educativa, come genitori: quanto stiamo facendo nei riguardi dei nostri figli nell’educarli alla fatica?
Psicologo Sport e Età dello Sviluppo
Formatore e Tutor presso Salesiani Don Bosco
Patentino Allenatore Uefa B
Collaborazioni precedenti:
A.C. Milan Settore Giovanile
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano